La metafora del tartufo

Mi mancava. Proprio nella mia regione mi mancava l’esperienza del #tartufo Così, approfittando di un passaggio nell’alto pesarese, non ho potuto resistere alla tentazione di vivere una.

Entriamo presto nel ristorante. Pochi commensali in attesa. Il ristorante è conosciuto, la sua fama lo precede. È tutto gradevolmente lento qui dentro, quella lentezza che è la giusta cornice del piacere conviviale.

Il racconto di ciò che accade, che sta per accadere, in attesa di un buon piatto a base di tartufo, è una parte essenziale del processo di conoscenza e di confidenza con un mondo che sa di preziosità, che emana in qualche modo eleganza.

L’ambiente, la competenza, la cura con cui viene presentato il prodotto sono un acclimatamento necessario prima di entrare in una dimensione multisensoriale speciale, in qualche modo unica.

Il tartufo, il #diamantedellaterra è probabilmente uno dei tuberi più difficili da trovare e raccogliere, la cui nascita è condizionata dalla variabilità delle condizioni meteorologiche, quindi la quantità ne può risentire, non necessariamente la qualità, alta, sempre molto alta.

D’altra parte, come recitava #Ovidio “Senza difficoltà non c’è nulla che abbia valore.”

La cronaca di questi ultimi mesi, racconta la ristoratrice, riporta che il raccolto non è stato ricco. Queste montagne ruvide hanno reso difficile il contatto con la terra, che tuttavia restituisce sempre con la dovuta pazienza questi frutti inestimabili.

Il caldo è stato intenso, la carenza d’acqua un dato di fatto, i tartufi sono buoni, di ottima qualità, ma sono piccoli e la quantità non è all’altezza degli anni passati. L’impatto sul prezzo è una logica conseguenza.

A pensarci bene, persino il tartufo meriterebbe una metafora dedicata, per narrare di qualcosa di prezioso, di raro che viene scoperto o trovato per caso. Il tartufo che cresce sottoterra, scontroso e severo, rappresenta quindi qualcosa di pregevole, inespugnabile talvolta.

L’esperienza di assaporare il tartufo, mangiare starebbe brutto, diventa allora una cronaca significativa ed esaltante.

Timidamente chiedo “Quanto tartufo va sulla pasta?”
“In buone condizioni di raccolta ci andrebbero otto grammi per ogni persona, ma quest’anno suggeriamo di mettere non più di cinque grammi a testa.”

Oro!

Pesiamo allora il tubero che abbiamo scelto, quasi avessimo un lingotto fra le mani. Poi quell’elemento prezioso scompare in cucina, per riapparire dopo un’attesa garbata sotto altre spoglie, ora disteso su una bruschetta perfettamente abbrustolita, poco dopo diffuso su una collina di tagliatelle che si lasciano mangiare senza opporre resistenza, impagabilmente accompagnato da un #vinobianco del territorio, fermo ma non troppo – come suggerirebbero i #winelover – un ottimo #Bianchellodel Metauro

Complimenti per il cibo, per la #miseenplace per i modi, per tutto: un’esperienza di incommensurabile spessore e valore.

“Immagino quanti verranno dall’estero fin qui a godere il posto e il cibo!” dico con un pizzico di marchigiana soddisfazione.

Non è così. “Probabilmente il prossimo anno questo ristorante non ci sarà più o per lo meno sarà ridimensionato. Non ne vale più la pena.”

I turisti, soprattutto quelli internazionali, frequentano sempre meno queste colline e questi monti, questi paesi spettacolari e pieni di storie. Nel corso degli anni i clienti stranieri sono diminuiti, sono sempre meno, stagione dopo stagione. Eppure sono loro, i clienti, quelli che comandano. Non è un luogo comune, comanda chi mangia.

“Bisogna portarceli i turisti qui, non si può aspettare che vengano da soli. È sempre la solita storia, ci sgoliamo a far capire, a comunicare alle nostre istituzioni cosa potrebbero e dovrebbero fare per la promozione, ma non accade nulla, nulla che sia efficace, che porti beneficio a questi territori.”

“Così fra poco chiuderemo, definitivamente. Forse ridurremo le nostre dimensioni, realizzeremo qualcosa di più piccolo, che attragga visitatori soprattutto durante il periodo fieristico.”

Verso la fine di ottobre e i primi di novembre da queste parti c’è la #FieraNazionaledelTartufoBianco
Sarà una buona occasione per ripassare e ripetere l’esperienza.

“Fare la storia dei tartufi sarebbe come intraprendere quella della civilizzazione del mondo, alla quale, per muti che siano, essi hanno preso parte più di quanto lo abbiano fatto le leggi di Minosse, o le tavole di Solone, a tutte le grandi epoche delle nazioni, a tutti i grandi bagliori che gettarono gli imperi. Affluivano a Roma , dalla Grecia e dalla Libia; i Barbari passando su di essi li calpestarono e li fecero scomparire, e da Augustolo fino a Luigi XV essi svaniscono per riapparire soltanto nel XVIII secolo.”

#AlexandreDumas

“Faire l’histoire des truffes serait entreprendre celle de la civilisation du monde, à laquelle, toutes muettes qu’elles sont, elles ont pris plus de part que les lois de Minos, que les tables de Solon à toutes les grandes époques des nations à toutes les grandes lueurs que jetèrent les empires; elles affluaient à Rome, de la Grèce et de la Libye; les Barbares en passant sur elles les foulèrent aux pieds et les firent disparaître, et d’Augustule jusqu’à Louis XV elles s’effacent pour reparaître seulement au XVIIIe siècle.” 

Buongiorno Professore

Buongiorno Professore,

Spero tutto bene!

È passato molto tempo dall’ultima volta che ci siamo scritti. Ricordo che stavo partendo per la mia prima esperienza di insegnamento.

Mi scuso quindi per questo lungo silenzio. Ci sono molte novità. So che le farebbe piacere sapere.
Quell’esperienza è stata una favola, nel vero senso della parola. Quarantacinque giorni trascorsi in una scuola media di lingua ladina, in mezzo alle montagne dell’Alto Adige, con ragazze e ragazzi che ogni mattina scendevano a valle dalle malghe o da qualche sperduta cima, qualcuno con gli sci, altri usando gli impianti a fune, come dovrei chiamarla?

Ho vissuto come in un racconto di Gianni Rodari, fatto di stima, coerenza, calore e accoglienza. Da professore matricola, ho compreso l’insegnamento come impegno sociale che proseguiva sempre e comunque fuori dalle aule, sui campi da sci come sui sentieri, di fronte a una cioccolata calda con un Krapfen o davanti a un piatto di Knödel.

Il ritorno alla realtà cittadina mi ha fatto poi desistere dal proseguire su quella strada, che speravo in cuor mio, potesse essere la mia vocazione.
Ho atteso troppo a lungo che arrivasse una chiamata per qualcosa di più di una supplenza. Invano.

Così un giorno ho colto l’attimo fuggente, l’opportunità di iniziare un percorso, in realtà divenuto un lungo viaggio, variopinto, vivace, intrigante e appassionante come mai mi sarei potuto aspettare. E ne sono soddisfatto.

Mi occupo di export e di internazionalizzazione, viaggio molto, ho imparato a leggere il mondo, a capire meglio il prossimo. Oltre al tedesco, ricorderà, mi sono messo di buona lena a studiare l’inglese – in realtà sono un completo autodidatta – poi ho ripreso confidenza con il francese e infine all’università ho aggiunto anche lo spagnolo. Ora, per lavoro, le esercito tutte, quotidianamente.

Devo confessarle che, nonostante la strada intrapresa mi abbia distolto dagli studi umanistici, non ho mai dimenticato la passione per le lettere che lei ci ha trasmesso. Affiancare, anche solo nei pensieri, i versi danteschi, così come lei ce li faceva assaporare, a del buon teatro, come quelle serate alle quali ci si ritrovava con quasi tutta la classe, è un ricordo tutt’altro che sbiadito.

Ammetto che quella energica pacca sulla spalla, un attimo prima di essere interrogato all’esame di maturità, nella sua materia, l’italiano, è stata un gesto evocativo e di incoraggiamento che non ho mai più dimenticato.

Vorrei sapere tanto di lei, ora che potremmo dialogare da vecchi amici, ma so che non è possibile.

Ovunque lei sia ora, le auguro il meglio!

Wohin geht die Reise, Herr Faust? Dove la porta il viaggio, Signor Fausto?

Sono legato a molte città, per via del mio lavoro. Una fra queste è Colonia, un po’ per la mia “antica” frequentazione della lingua e della letteratura tedesca, un po’ perché da lì, nella regione intorno a Colonia, ha preso le mosse la mia professione, la mia passione ormai.

“(…) Die Luft ist kühl und es dunkelt | Und ruhig fließt der Rhein (…)”
#dielorelei #heinrichheine “e lento scorre il Reno”.

Parafrasando #LeCorbusier “Preferisco le fotografie alle parole.” Colonia si lascia fotografare in ogni dettaglio, in ogni stagione, che sia un inverno freddissimo e il tempo del #Fasching il #Carnevale che rende la città una tavolozza vivace e anche folle assai!

Ho perso il conto delle volte che sono stato a Colonia, per un meeting, ad una fiera, a visitare un Cliente, poi la sera mangiando e bevendo (qualche) #Kölsch da #FrühamDom quel posto dove tutti gli uomini sono uguali. [“Bei Früh sind alle Meschen gleich.”] e il corpo e l’anima vanno a nozze! [“Gut essen und trinken hält Leib und Seele zusammen.”]

Ad ogni scappata la città sembra tua, ti si (ri)svela con i soliti posti, nuovi incontri, vecchie, buone conoscenze, progetti da scrivere: un’appassionante curiosità. Colonia potrebbe essere una #cittàimmaginaria moderna e tradizionale ad un tempo, bizzarra e precisa, una mirabile invenzione.

“Köln ist nicht perfekt, aber vollkommen, es ist vollkommen Köln.” #HeinrichBöll

Quell’idea di abitare la città, dentro e fuori dalla fiera o lo stabilimento di un Cliente, sia pure per pochi giorni – in questo consapevole vagabondare – mi conferma quanto straordinaria sia questa professione: lavorare nel Mondo! #internazionalizzare in fondo è applicare buone pratiche di comunicazione, di dialogo e di stile per relazioni di lungo corso e un po’ anche per rendere sostenibili e virtuosi i percorsi comuni con persone che conosciamo e che conosceremo. #consapevolezzaculturale #culturalawareness

Da qualsiasi lato guardi la città, questa città, quello è sempre il più suggestivo! Dietro ad una finestra, oltre una vetrata, la città assume una dimensione amplificata, quella che rimane appiccicata nel file dei ricordi.

A Colonia si cammina molto, anzi la si apprezza meglio proprio camminando: è la scusa buona che prediligo, per osservare, interagire e conoscere ogni volta un angolo dimenticato la volta precedente. “Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva (…) #JoséSaramago

“Non sapersi orientare in una città non vuol dire molto.
Ma smarrirsi in essa, come ci si smarrisce in una foresta,
è una cosa tutta da imparare.” #WalterBenjamin

Alla prossima città! D’altra parte il #viaggio è #unafaccendaspeciale e merita repliche a scena aperta!

#colonia #köln #cologne #ewigestadt #internationalization 

 

Un cenno di matita

Photo by @ClarissaWatson on @Unsplash

Interno fiera. È appena iniziata. Timidi visitatori si affacciano ai corridoi. Negli stand si attende, come sempre, che arrivi il primo visitatore, nuovo, conosciuto, di passaggio, non importa. Comunque sia che arrivi, perché è il segnale che la fiera è iniziata.

Il piano sequenza è insistente, l’inquadratura ansiosa su chi attende. Ad un tratto l’immagine si stringe. Entra qualcuno. 

Primo piano. Borsa sottobraccio, persona distinta, sguardo professionale, curioso, sembra avere la domanda già pronta. Saluta cordialmente, si presenta: “Bonjour, je suis Mr. T. de la Société R. Comment ça va? Est-ce que Vous êtes Mr. Fausto?” Ci sediamo. Estrae con piglio professorale un foglio bianco dalla borsa – evoca un’immagine vintage – prende una matita e comincia a disegnare. Silenzio.

La grafite scorre sul foglio come a incidere qualcosa che rimarrà. Ne esce un profilo, insolito, di una struttura metallica, qualcosa di robusto, importante.

E continua: “Mr. … Je veux ça!” Come in un racconto di Henrich Böll, il mio interlocutore sembra essere certo che “qualcosa accadrà”!

Percepisco un’accelerazione positiva. In un attimo è come se il calendario scorresse già, con tutte le funzioni coinvolte e mescolate a un flusso di pensieri. 

Devo fare qualcosa subito, prima di subito. Non sarà prima della sera, in albergo, al termine di una giornata speciale. 

“Mettiti seduto, dico al mio capo! (gli posso dare del tu e lo chiamo “capo”.) Stamattina è venuto a trovarmi Mr. T. della Società R. Ha preso carta e matita e ha disegnato questo profilo. Il progetto è importante, urgente, a novembre, nei primi giorni di novembre, i primi lotti devono già essere a Londra. Questo progetto deve essere nostro!”

Silenzio, quel silenzio che non prediligo. Seguono sbuffi, smorfie, qualche cenno di tosse, sguardi complici fra i cortigiani, pardon, i collaboratori più stretti. In molti scuotono la testa. Poi la sentenza: “Nun se po’ fa’!” con l’eco di sostegno dei cortigiani: “Sì, giusto, vero, no, non se po’ fa’!”

Non parlo, non reagisco, forse non respiro nemmeno. Penso: ”Vedremo, se non si può fare!” E replico: “Ma dai, parliamone con calma, domattina. Il Signor T. ripassa, per portarci qualche disegno più dettagliato.”

L’indomani ci rivediamo. Siamo in tre, quattro, non ricordo. Parliamo, traduco, tanti gesti – ahimè, le smorfie ci sono sempre e non si possono tradurre (e sono pericolose)! – ci si scambia qualche parola di italiano. Guardiamo il calendario, con apprensione. Ci si capisce. Finita la fiera, faremo sapere. Maggio sta per finire.

Seguono fitti scambi di corrispondenza, disegni naturalmente, una prima offerta indicativa: non siamo distanti. Ma il tempo, il tempo è proprio quello che manca e scorre inesorabilmente.

La pressione si alza, nel contempo le idee non sono chiare, sembrano annebbiarsi. Ci sono molti attori coinvolti: il cliente, il designer, il capoprogetto, la proprietà, la direzione generale, come sempre accade quando si tratta di vendita industriale. Ciascuno vuol dire la sua, talvolta noncuranti dei tempi e dei processi.

Nascono i primi dubbi sulle scadenze, un barlume di incertezza che sembra far saltare tutto, posticipare persino, perdendo – nell’imminenza di un periodo di ferie – uno spazio  importante per poter lavorare agevolmente, considerando che in un nuovo lavoro l’imprevisto è sempre dietro l’angolo e ci devono essere i margini di recupero.

Bisogna sbloccare l’empasse, sciogliere i dubbi, 

Sto rientrando da uno di quei colloqui di definizione del progetto, forse l’ultimo – penso – ma non è così! Ad un certo punto penso di dover fare qualcosa, scrivere – per sbloccare la situazione – con cortesia e puntualità, un lungo fax, a mano (come si faceva!), facendo il punto sull’avanzamento del progetto, sui vincoli e sulle scadenze, quelle dei fornitori in particolare, visto che siamo sul limite della pausa estiva. 

La sintesi: se andiamo oltre un certo limite temporale, rischiamo di non riuscire a rispettare le date imposte dal committente e il progetto salta.

Passano pochi, pochissimi giorni, sembrano mesi. La risposta scritta viene preceduta da una telefonata:
“Allez-y!” Procedete!

Comincia il lavoro. I disegni vengono approvati nel giro di pochi giorni. Vengono integrate una serie di simulazioni per validare la tenuta del profilo, il calcolo della resistenza e della flessione della struttura metallica deve essere accurato. Il risultato promuove il progetto. Un altro passo avanti.

Si procede alla realizzazione della sezione di un campione, in dimensioni reali, un’opera che seguirò in ogni passaggio, ogni giorno, ossessivamente. Quel filo dell’elettroerosione che scorre 24h nella billetta di alluminio diventa l’occasione quotidiana per confrontarmi con chi produce: un vero training on the job! 

Anche questo fa parte del percorso di internazionalizzazione. 

Ogni mattina di quei lunghi giorni a verificare che la notte fosse passata bene e che non ci fossero state interruzioni del lavoro.

Il campione viene approvato. Si faranno test anche sulla finitura, una nuova, speciale per questo progetto. Anche la finitura verrà approvata.

Intanto parte la pianificazione, un’occasione inderogabile per applicare logiche di project management. Riunioni su riunioni, volate in produzione e poi solleciti dietro solleciti. 

Quando arriva il giorno della prima spedizione siamo un po’ tutti emozionati. Passerà qualche giorno in attesa ansiosa del feedback, che infine arriverà. 

Ci siamo riusciti! Il Cliente rimane soddisfatto, di tutto, del prodotto finale e della macchina organizzativa messa in piedi in soli centoventi giorni!

Forse fu un miracolo, senza averne piena coscienza, superando difficoltà che sembravano insormontabili, abbattendo resistenze e pregiudizi, interni ed esterni.

Così è la realizzazione di un progetto B2B: ascoltare, co-progettare e contribuire perché il prodotto sia come doveva essere, performante secondo le specifiche, consegnato come si aspetta il Cliente, ad un prezzo soddisfacente per entrambi i partner coinvolti, perché “creare una relazione di lungo termine” è il fondamento della vendita.

Centrale il rapporto con il Cliente, più esattamente la relazione fra Partner, fondata sul privilegio di scambiare conoscenze e competenze, al tempo stesso cooperativa e proattiva.

In questa maniera prende forma un nuovo progetto, si trova la soluzione più efficace e significativa per un nuovo prodotto, nel pieno rispetto del marchio e dell’identità dell’Azienda.

È stata una grande storia – accadeva venti anni fa – in cui il contributo 100/100 in ogni area, a tutti i livelli, è stato determinante, vincente!

“Un oggetto di design è il frutto dello sforzo comune di molte persone dalle diverse specifiche competenze tecniche, industriali, commerciali, estetiche. Il lavoro del designer è la sintesi espressiva di questo lavoro collettivo. Quello che caratterizza la progettazione è proprio il rapporto continuo tra parecchi operatori, dall’ imprenditore all’ultimo operaio.” #AchilleCastiglioni

#B2B #export #exportmanagement #percorsi #esperienze #lessonslearned

Se il mio cane potesse parlare

Qualche giorno fa, prima di questo strano momento, rientrando dalla nostra consueta passeggiata, Giotto – il mio socio a quattro zampe – vede al di là del giardino la sagoma stanca e ciondolante di un cane vicino di casa, un glorioso golden.
Il passo di quel grosso cane è lento, quasi trascinato dal suo padrone, lascia intendere un buon numero di anni sulla schiena e forse qualche acciacco.
Giotto si ferma. Rimane immobile per tutto il tempo, anche il muso non tradisce smorfie, non ringhia, osserva.
Di norma reagisce, abbaia, tira.
Stavolta no. Segue con lo sguardo ogni movimento di quel suo compagno affaticato, poi si siede, rispettosamente, in silenzio, fino a che il golden non rientra nella sua casa in punta di zampa.
Lo accarezzo ripetutamente, mentre gli dico orgogliosamente “Bene, Bravo! Ottimo!”
Non sono un esperto, ma questa per reazione è di spessore, segno di una sensibile intelligenza emotiva. Commovente.
Ci sono lezioni da imparare con lui, ogni giorno. Questo è uno di quei giorni.
Il mio socio a quattro zampe non trascura mai gli insegnamenti – quelli che impartisce di più rispetto a quelli che (faticosamente) recepisce – e lo fa con la stessa disinvoltura, con la quale mi guardò 5 anni fa, quando lo presi in braccio per la prima volta, al canile dov’era stato portato, bagnato e tremante, dopo l’abbandono di alcuni giorni al freddo e alla pioggia.

Mi guardi ebbro d’amore, inclini la tua testa e ti smarrisci.

“Padrone, mio, che dici?

Con tutto quello che possiamo fare: rincorrerci, annusarci, baciarci con la lingua,
giocare con i gatti, 
cacciare le lucertole, mangiare.

Dai retta a me, padrone mio, pensa di meno a te e asseconda il vento.

Svuotato l’io, sarai pieno di vita: importa poco se per un anno, dieci o cento”.

(“Parola di cane”, Franco Marcoaldi)

In 5 anni trascorsi appassionatamente ho appreso tanto da questa personalità #atuttotondo fidata, precisa, ma imprevedibile, che nessun corso blasonato è stato capace di lasciarmi!

#lessonslearned #dogslife

Humanism at Work

The main question is if today we can still aim to have humanism at work, in other words to create a good climate first to live and then to work together.


It seems that in the past – but when? – there was a good climate in the working domains and that many trials were and are made to come back to such a good climate.

Would it be possible indeed to be friends and colleagues at the same time? Therefore to live (and work) in a smart environment, taking care of people, sharing facts, competence, joys and sorrows?

Not all people can understand what it means, being the high competitiveness the major obstacle and therefore forgetting the respect. And respect it’s a matter of education.

Would it be necessary, needed, better to say compulsory to have someone imposing rules in that sense? Would the “fabbrica sociale” (social factory), the cooperative or the “human company” be a model? Or would it be better to leave to the individuals the willing to organize themselves as it should be?

Based on the experience it seems that the major lack in order to follow this path is due to the absence of responsibility, people don’t what to make steps forward to change direction. Colleagues are not helping each other, only the single life and professional garden have a value, but not a shared one.

A comparison with the foreign countries gives different results, more oriented to the forms and substances of sensitivity and respect, which don’t jeopardise the profits and consider the people in a “caring” atmosphere. It is in any case important to say that without caring, there wouldn’t be any improvement to get or introduce humanism at work.

Communicate with people as a starting way to humanize a company, telling them numbers, figures, processes, costs, would mean to involve people in the company’s management, to get better results from the behaviour point of view.


Humanize the work is a time consuming activity, but it should become an attitude, the fundamental of the future’s company.

The vision: to have the freedom (and the right) to refuse an order or a job by a Customer, who is not respecting mission and values of the company. Because at the end of the day working shouldn’t be a sacrifice, but a shared engagement to be developed with passion and fun.
Humanism is a long process, which should be played with patience and consistency, where long-life batteries are needed.

“The achievements of an organization are the results of the combined effort of each individual.”
(Vince Lombardi)

As lived, discussed, written and shared during @OhanaMeetup #theworkrevolutionparty
@CocoonProjects in Rome, March 23rd– 24thMarch, 2018

Revised and edited by Claudia Massioni

Meglio i bilanci dei buoni propositi

Preferisco i bilanci ai buoni propositi, che siano colmi di fatti più che di cifre.
Le cifre sono modificabili, i fatti restano, si ricordano e sono un buon viatico.

E’ stato un anno buono, denso di buone cose, di conferme, ma anche di novità, un percorso non sempre agevole, ma ricco di buone relazioni dopo una lunga semina, paziente e certosina.

Contaminato da questa energia, rinnovo la mia cartolina:


Buon Anno, nonostante tutto, all’ex-collega arrogante e spocchioso,
e Buon Anno comunque all’imprenditore senza scrupoli;

Buon Anno a chi privilegia e pratica rispetto, etica e dignità invece che arrivismo e competizione
e Buon Anno a chi usa il buon senso;

Buon Anno a chi se la tira
e Buon Anno a chi è disponibile 24 ore su 24;

Buon Anno a chi fa domande
e Buon Anno a chi risponde con cortesia;

Buon Anno a chi ti fa un favore,
prima ancora che tu l’abbia ringraziato;

Buon Anno a chi ho conosciuto l’altro ieri,
e Buon Anno a chi ho conosciuto ieri;

Buon Anno alle buone e sane relazioni, di amicizia e lavoro oppure tutte e due,
e Buon Anno a chi non ha mai bisogno di eroi;

Buon Anno a chi dà valore al tempo e tempo ai valori
e Buon Anno a chi non pensa solo al proprio orticello;

Buon Anno a chi guarda oltre confine
e Buon Anno a chi ha bisogno di parlare come a chi sa ascoltare;


Buon Anno a chi parla una lingua straniera oltre la propria
e Buon Anno a chi ne sta imparando una, non importa l’età;

Buon Anno a chi si aspetta che il Nuovo Anno sarà migliore
e farà di tutto perché possa essere così;

Buon Anno a chi s’indigna e dissente, per crescere
e Buon Anno a chi cresce con la giusta energia critica;

Buon Anno a chi conserva gelosamente la propria dignità,
perché di quella non si può né si deve fare a meno;


Buon Anno a chi scrive tanto, pure troppo, ma non sa cosa
e Buon Anno a chi scrive le cose giuste;

Buon Anno alle Persone che parlano e interagiscono,
perché accadano cose e si diventi più saggi;


Buon Anno a chi è nomade per natura
e Buon Anno a chi torna e ritorna;

Buon Anno a chi aspetta la manna dal cielo (che non arriverà, se non ci metti del tuo!)
e Buon Anno a chi ha una passione ricaricabile;

Buon Anno a chi, invece di fare i botti, brinderà ad un Buon Futuro,
rispettando così i nostri amici animali;

Buon Anno alla mia Metà,
e Buon Anno ai nostri Tesori, che hanno già preso la loro buona strada,

insomma Buon Anno a tutti!


Happy New Year!
Bonne Année à tous!
Feliz Año Nuevo a todos!
Einen guten Rutsch ins neue Jahr!

 

Exportivity. Una sostenibile proposta di Internazionalizzazione “à la carte”.

#Esportare è un’attività per fondisti, richiede disciplina, applicazione, costanza, larghezza d’idee, ma soprattutto un cambio di visuale di tutta l’Impresa, un Viaggio di portata indimenticabile.

E’ importante seguire la giusta direzione ed esser pronti a qualsiasi manovra di adattamento per personalizzare la propria proposta, per renderla autentica, ma compatibile con le esigenze di chi guarda oltre confine.

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Prima di “partire” la #buonaImpresa avrà costruito brave Persone, solo così sarà in grado di offrire buoni prodotti e servizi al mercato domestico come a quello estero.

Esportare è una “scelta”, un modo di fare e divulgare il proprio #saperfare andando a scoprire nuovi modi di espressione dell’Impresa, è un veicolo di #distribuzione di sapienza manageriale, del prodotto, del Paese in cui vivi, che arricchisce Persone e sistemi, processi e stili, aggiunge valore alle relazioni e incrementa le competenze.

Esportare è percorso complesso, richiede un indirizzo chiaro, ma non gigantesco, sostenuto da un modello preciso, condiviso e raggiungibile.

Export is not a journey, is an itinerary.

“I believe that anybody who has to export, and who believes in skills, gets away from fighting about history.” (Stef Wertheimer)

#export #thatsmyjob

La scossa

Al suo arrivo la scossa fu tremenda, indiscreta, quasi strafottente! Senza chiedere permesso entrò a gamba tesa, bloccando tutti i collegamenti.

La mano destra – quella che stava scrivendo – improvvisamente non sapeva più a chi rispondere. Dalla torre di controllo, il #cervello, suggerì un opportuno black-out immediato, anche un po’ violento, con caduta rovinosa “bocca avanti”.

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Il risveglio fu dopo molte ore, un tempo infinito, su una lettiga di pronto soccorso, a sperare che fosse stato solo un sogno, un terribile sogno.

Ma non era così!

Solo una voce, un ricordo. “Non toccate nulla, arriva l’ambulanza!” Poi il silenzio!

Esami, prelievi, TAC, referti, carte, anamnesi e poi ancora l’incertezza di cosa fosse successo. Troppo tempo per un precisino! Alza i tacchi e vattene, esci da questo ospedale e torna a casa! Forse a casa ti diranno #buonecose

“Lei ha quasi 33 anni e una #malformazionecongenita alla testa. Si deve operare. Prima possibile!”

Un tonfo. Una caduta, forse un’altra, virtuale. Poi training autogeno, immediato, necessario.

“Trovàti un neurologo e fatti dire cosa devi fare!”

Ah, ma allora devo fare tutto io! Entra in scena Marco, giovane neurologo. Legge le carte, silenziosamente, calmo risponde: “Confermo. Devi farti operare, prima che puoi. Sei giovane, troppo giovane. Ti do’ un paio di consigli: Parigi, Hôpital de la Pitié-Salpêtrière oppure Milano, il #Besta!”

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Parte l’indagine di marketing. Di web poco davvero allora. Tante telefonate, consigli, anche perdite di tempo, ma il tempo è importante: potrebbe arrivare un’altra scossa!

Poi un’informazione, forse è quella giusta. Allora #destinazioneMilano Lì opera un giovane neurochirurgo marchigiano, di Jesi, Sergio. E’ già famoso. Avrà più o meno 40 anni.

La visita è una passeggiata: sarà come un’appendicite, ma l’attesa sarà lunga!

Gennaio, febbraio, un lungo inverno fino a giugno. Poi, una domenica, una calda domenica di giugno, una telefonata inattesa. Martedì qui, da noi, pronti per l’operazione! Vuoto. Silenzio. Piano lungo, lunghissimo.

Parto, il caldo a Milano è più invadente delle zanzare. Ma non sarà quel giorno, nemmeno quello dopo. Passeranno tanti giorni, 20 più o meno. Esami, prelievi. Il #Besta, una casa!

“E’ giovane! E’ un caso da studiare. Quella “pallina” è vicino all’ #areadiBroca, lui parla tante lingue. Sarà il caso di studiare. Allora approfondiamo.”

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In ambulanza, addirittura in ambulanza, al Centro Studi sull’Afasia, tutto a Milano, il top, con lei, Anna, la più grande, la più severa, la più brava! Verifiche prima, poi ci saranno durante e anche dopo. Per capire, per sapere, di più. Per stare tranquilli.

Passano intanto bimbi, da adorare, cadute, dolori difficili da consolare nel mezzo della calura estiva, esempi di padri e madri che non sanno come fare, ma che hanno una forza da spostare le montagne. Un’altra scuola, di vita.

Seguono lunghe chiacchierate, sulle Marche, su #casanostra e anche sull’operazione, in balcone con Sergio. Racconta tutto, la sua carriera, il suo percorso (ha capito che così starò più sereno!), anche i dettagli, di come sarà, di quello che potrà accadere.

Lui è tranquillo, io sono tranquillo. That’s it!

Poi un giorno, un solo giorno prima, la chiamata. E’ domani!

Domani è subito! Distaccato, freddo, estraniato. Mi tocca. Steso.

“Tranquillo, conta fino a tre, non sentirai nulla! Che il Pentotal sia con te!”

Sono tutti giovani in sala, età media sotto i 40 anni, i migliori, per me.

6 ore, manovre millimetriche. In testa una stazione spaziale. Bisogna centrare il punto, senza toccare il resto. Come rubare qualcosa senza nemmeno sfiorare le fotocellule!

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Dal giorno dopo un mal di testa fortissimo, un ematoma grande quanto un fungo e una minestra che aspetterà qualche ora prima che un cucchiaio gonfio di pianti irrisolti ci cada dentro. La mano funziona, la capoccia pure. Parlo!

Cazzo, parlo!

Ma il drenaggio non va. Torna Sergio. Si tramuta in sarto. Scuce e ricuce, così, su due piedi. E stringe, accidenti se stringe! Diventerò meteoropatico, lo so!

La manutenzione funziona. Il decorso riprende bene.

Asportazione completa in #visionemicroscopica. #Stereotassi. 12 luglio 1991. 25 anni fa. Oggi la racconto tutta. Grazie non sarà mai abbastanza!

Segue. Es folgt. To be continued…

 

 

 

Ritorni

“Era appena entrato in azienda, quel rumore di metallo era tornato familiare.
Gli anziani lo guardarono con ammirazione, complici e imploranti, l’aspettavano.
I giovani, mai visto prima d’allora, pensarono subito a qualcuno d’importante, ma continuarono a trafficare.

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Non era così naturalmente. Il telefono, dopo qualche anno, aveva squillato, come una richiesta d’aiuto, senza fronzoli. Non era la prima volta. Gli si chiedeva di tornare, di rimettere a posto quello che altri avevano distrutto, deliberatamente, di ridare fiato e voglia a gente impagabile, dai polmoni anneriti, ma dalle facce serene e pronte a ricominciare.
Vide in un angolo uno sgabello sgangherato, il suo tavolo, ogni volta che entrava a fare il punto con il capo officina. Lo prese, si sedette e ricominciò a parlare, come l’ultima volta, quando aveva preso le difese dei suoi colleghi e poi se n’era andato, suo malgrado.
Le macchine si fermarono.”

(tratto da “Qualcosa che scriverò, forse”)